La scuola sta finendo e adesso i genitori iniziano a pensare al prossimo step dei loro figli: quale istituto scegliere? Ovviamente questo vale sia per le medie che per il liceo, e perché no? Anche per le università. Quando si fanno queste scelte, il primo errore in cui si incappa consiste nell’essere influenzati da tale credenza comune: gli istituti in cui vi è una forte omogeneità socio-culturale sono i migliori, poiché preparerebbero meglio al futuro. Una tesi non sempre del tutto vincolante. Eppure, molti pensano che avere nel proprio CVE l’aver frequentato una scuole prestigiosa, possa essere una marcia in più in ambito lavorativo.
Scuola: il mondo è bello perché è vario
Come ricorda un recente articolo pubblicato su Vanity Fair, in realtà, una scuola che presenta una situazione socio culturale variegata, consente al ragazzo di maturare, di avere una mentalità più aperta e di saper vedere le cose sotto diversi punti di vista. Il potersi confrontare con altre persone provenienti da contesti diversi dal proprio, sarebbe quindi utile in futuro, nel mondo del lavoro.
Nel caso di un ragazzo proveniente da una realtà privilegiata, entrando a contatto con compagni di ‘ceto’ differente, spinge costui a comprendere la realtà e la durezza della vita, di come la sua fortuna (costruita non certo da lui, ma dai genitori) non sia affatto scontata. Lo studente si affaccia così alla realtà dei fatti, comprendendo la durezza della vita, in quanto non tutti hanno gli stessi privilegi.
Il punto di Roberto D’Incau
Roberto D’Incau spiega dunque che non sempre una scuola esclusiva sia garante di una futura opportunità lavorativa. Pensare che il tipo di istituto sia essenziale è un errore, poiché esso rappresenta solamente un punto di partenza. Quanti ragazzi uscenti da semplici istituti professionali o alberghieri sono in seguito divenuti professionisti stimati e facoltosi? La differenza, spiega D’Incau, non la fa la scuola, ma le competenze personali e le skills di un soggetto.
Fonte:
Vanity Fair