Fioramonti: 'Vincolo quinquennale respinto dal governo'
Fioramonti: 'Vincolo quinquennale respinto dal governo'

Pubblichiamo qui di seguito un comunicato stampa da parte del Direttivo “V.I.Ph.D” avente come argomenti principali la scuola e la fuga di cervelli. Per la scuola servono almeno 3 miliardi, soldi che il governo non ha alcuna intenzione di dare. Fioramonti si è da poco dimesso, la possibilità di finanziamento è oramai perduta. C’è tuttavia qualcosa che non quadra in tale vicenda. L’articolo ha come altro tema focale lo stesso ex ministro dell’istruzione ed alcune sue presunte contraddizioni.

Scuola: quale il senso delle dimissioni di Lorenzo Fioramonti?

Breve storia triste: per la scuola (il futuro e la sicurezza dei nostri figli, un servizio base del Paese) servono almeno 3 miliardi, il Governo non vuole darli, il Ministro si dimette, la scuola non avrà soldi, l’ex Ministro è un eroe. Fine.

Visto che nella sua sentita lettera di dimissioni, l’ormai ex Ministro denuncia: “La perdita dei nostri talenti e la mancata valorizzazione delle eccellenze generano un’emorragia costante di conoscenza e competenze preziosissime, che finisce per contribuire alla crescita di altre nazioni, più lungimiranti della nostra. È questa la vera crisi economica italiana”, vorremmo raccontare proprio la versione dei “cervelli in fuga”, cioè dei Dottori di ricerca, detentori del massimo titolo di studio, il dottorato, riconosciuto in Italia e nel mondo. Quei cervelli in fuga ai quali l’ex Ministro eroe non ha mai voluto concedere un attimo del suo prezioso tempo e che sono stati esclusi dal DL Scuola con il plauso di tutta la maggioranza, in particolare del Sottosegretario Azzolina e del Viceministro Ascani.

Dando seguito a un precedente comunicato, in quanto Gruppo di interesse V.I.Ph.D – Valorizzazione Italiana del Ph.D, che rappresenta migliaia di dottori di ricerca italiani interessati alla scuola, prendiamo atto non solo delle dimissioni di Lorenzo Fioramonti ma ancor prima e più gravemente dell’esito delle votazioni in Parlamento dei vari emendamenti al Decreto Scuola, il cosiddetto “salva precari”, e dell’esclusione dei dottori di ricerca (in possesso anche dei 24 cfu) dal concorso straordinario. Tale esclusione, iniziata alla Camera con la bocciatura da parte dalla stessa maggioranza di Governo dell’emendamento presentato dall’On. Nicola Fratoianni, e sottoscritto dall’On. Alessandro Melicchio (nonché sostenuto, e poi ripresentato, da tutta l’opposizione), che ammetteva i PhD al suddetto concorso ai soli fini abilitativi, è stata risolutamente confermata lo scorso 19 dicembre quando, con il voto di fiducia chiesto dal Governo al Senato, il testo del Decreto “salva precari” è diventato legge (126/2019).

Ecco alcune delle principali “motivazioni” via via addotte per giustificare tale esclusione, riferite a membri del nostro Direttivo o del Coordinamento regionale, e la loro “straordinaria” inconsistenza:

1) Secondo le Commissioni Istruzione e Lavoro l’emendamento Fratoianni era incostituzionale, in quanto in contraddizione con la sentenza della Corte Costituzionale (n. 130/2019, pubblicata il 28 maggio), che ha negato l’equivalenza e l’equiparazione di dottorato e abilitazione all’insegnamento scolastico.

Evidentemente gli esponenti di 5S e PD, che hanno sostenuto questa tesi, non hanno colto (o voluto cogliere?) il reale contenuto della nostra richiesta. Non si spiega altrimenti la macroscopica assurdità, pretestuosità di tale obiezione. L’emendamento, infatti, non chiedeva in alcun modo di equiparare il dottorato all’abilitazione, essendo per l’appunto un emendamento relativo a un concorso abilitante, rivolto cioè a soggetti non in possesso di abilitazione: l’emendamento chiedeva che ai dottori di ricerca, in possesso dei 24 cfu, fosse consentito di partecipare proprio per abilitarsi!

Ma c’è di più: l’emendamento si riferiva appunto ai dottori di ricerca in possesso anche dei 24 cfu, a differenza di tutti i precari, statali e paritari, con 36 mesi, che non li hanno mai conseguiti perché a suo tempo, in vista del concorso ordinario, il MIUR li dispensò dal farlo, di fatto equiparandoli nei contenuti all’esperienza e alle competenze acquisite in 36 mesi di servizio a scuola. Questo significa che sono state volutamente escluse persone non soltanto massimamente preparate sulle proprie discipline (come certificato dallo Stato italiano con il titolo di Dottore di ricerca) ma anche già testate e promosse, sempre dallo Stato italiano, tramite esami all’università, su quelle competenze specifiche legate all’insegnamento scolastico che i PhD si presume non posseggano in virtù del loro titolo e che i precari con 36 mesi di servizio dovrebbero aver acquisito “sul campo”, senza tuttavia che in proposito vi siano mai state una verifica e una valutazione ufficiali.

A proposito di incostituzionalità, inoltre, va sottolineato come l’unico vero elemento incostituzionale in tutta questa vicenda sia lo stesso concorso straordinario, in quanto elaborato sulla base di una legge, la Legge Madia, già giudicata incostituzionale in diversi suoi punti ma ciononostante ancora usata come riferimento attraverso vari decreti attuativi. È paradossale che il Parlamento italiano invece di provvedere a riscrivere correttamente una legge bocciata, quella sì, dalla Corte Costituzionale, continui ad applicarla, di fatto tenendo conto del parere di tale Corte solo nei casi ad esso più convenienti…

2) “A proposito delle molte richieste che ci arrivano dal mondo dei dottori di ricerca, riguardo la partecipazione al concorso straordinario ai fini abilitativi, siamo convinti che l’insegnamento sia un percorso con una sua particolare dignità e professionalità che viene acquisita con una formazione specifica e con un percorso di insegnamento nella scuola. Per intenderci, puoi conoscere benissimo la materia ma non essere un buon insegnante. Ne abbiamo discusso in fase di approvazione della legge per la ‘buona scuola’ ma arrivando sempre alla stessa conclusione.
Come dice la Corte Costituzionale nella sentenza del 7 maggio 2019: «si tratta di esperienze e professionalità diverse in ambiti differenziati e non assimilabili». Quindi un titolo accademico, quale quello di dottore di ricerca, non può abilitare all’insegnamento nella scuola. Al titolo di dottore di ricerca è comunque già riconosciuto un punteggio ai fini concorsuali”.

Questa è una nota giunta dal Partito Democratico e presentata al Gruppo V.I.Ph.D come la posizione ufficiale del PD. Abbiamo evidenziato in grassetto i passaggi migliori.

Non si capisce a quale “formazione specifica” si riferisca la nota, visto che i precari con 36 mesi ammessi al concorso straordinario non sono abilitati, non hanno cioè seguito alcun tipo di percorso formativo specifico, selettivo e con valutazioni in itinere o finali. Quanto al “percorso di insegnamento nella scuola”, che secondo il PD conferirebbe la giusta professionalità, si sta quindi dicendo che il precariato, invece di essere un demerito del sistema, è un titolo di merito superiore a qualsiasi altro. Si sta dicendo, cioè, che va bene immettere nella scuola persone del tutto inesperte e non formate, cioè i precari della terza fascia, e lasciare che facciano pratica “sul campo”, ovvero sperimentando pian piano la docenza sugli studenti (equiparati di fatto a cavie), pazienza se magari facendo danni nel mentre, perché dopo 36 mesi improvvisamente si ritrovano provvisti della giusta formazione professionale.

Sull’affermazione per cui “puoi conoscere benissimo la materia ma non essere un buon insegnante” siamo assolutamente d’accordo: tutti abbiamo di certo avuto l’esperienza, da studenti, di professori magari preparatissimi ma negati per quel ruolo. Questo però prova, anzitutto, che finora non si è trovata alcuna procedura capace di scremare davvero i buoni insegnanti dai pessimi insegnanti. E soprattutto: in che modo rispondere a un test a crocette e simulare una lezione all’orale finale dovrebbero attestare, senza ombra di dubbio, l’attitudine all’insegnamento? Ma ancora di più: questa “selezione” dovrebbe semmai avvenire prima di andare in cattedra, non dopo 36 mesi o più di permanenza nella scuola! In questa frase, cioè, si sta trasformando l’esito finale (di una qualche forma di valutazione) nella premessa, visto che le persone ammesse al concorso straordinario non sono ancora state saggiate in tal senso.

La terza parte evidenziata in grassetto ripropone l’argomento già citato nel punto 1: “un titolo accademico, quale quello di dottore di ricerca, non può abilitare all’insegnamento nella scuola”. E torniamo all’ingiustificato pressapochismo con cui si è guardato alla nostra richiesta.

I dottori di ricerca “ringraziano” infine il PD per aver ricordato loro che il titolo di studio più alto a livello internazionale finora è valso solo 12 punti ai fini concorsuali, ovvero è stato fatto corrispondere ad una annualità di servizio scolastico. Peccato che il dottorato abbia durata triennale (o quadriennale a seconda dell’indirizzo di studi) e che questi anni di servizio presso il MIUR (nel corso dei quali peraltro i dottorandi hanno facoltà di svolgere attività didattica secondo il D.M. 45/2013) siano anni solari pieni, non anni scolastici per il cui computo a fini di punteggio pieno e valore concorsuale bastano 180 giorni, oltre ad essere 3 o 4 anni di formazione e di didattica su materia riconosciuti dall’appartenenza allo specifico Settore-Scientifico-Disciplinare (SSD) di riferimento, diversamente dall’unico anno su materia su 3 richiesto come requisito minimo per accedere allo straordinario. A rigor di logica, quindi, i punti attribuiti al dottorato nei concorsi dovrebbero essere non meno di 36 (12×3).

Ma non è tutto! Al danno, infatti, è stata aggiunta la beffa: amara novità dei lavori alla Camera, nei prossimi concorsi ordinari il titolo di dottorato sarà ancorato ad una percentuale, cioè varrà minimo il 20% del totale dei punti attribuibili ai titoli. Una presa in giro a tutti gli effetti, perché sebbene l’aver sancito un minimale a fronte di una totale assenza normativa in tal senso possa essere un piccolo passo avanti (ma in Parlamento si sarebbero potute approvare misure ben più sostanziali e incisive di valorizzazione del titolo, se l’intenzione fosse davvero stata questa), di fatto rischia di diventare un boomerang: essendo il punteggio attribuibile ai titoli una variabile soggetta all’arbitrio dei legislatori di ciascun concorso, anche il valore del massimo titolo di studio fluttuerà con esso, potendo concretamente scendere ben al di sotto della già scandalosa quota di 12 o 15 punti, fermandosi magari proprio alla soglia minima. Visto quanto il sistema scolastico e chi lo governa hanno sinora mostrato di voler osteggiare in ogni modo i dottori di ricerca, c’è da aspettarsi che alla prima occasione utile il dottorato sarà ulteriormente penalizzato invece che valorizzato, trasformando quella percentuale minima in punteggio preciso, senza cioè aumentarlo in alcun modo, pur potendo.

3) L’emendamento ha ricevuto parere negativo perché la platea di possibili aventi diritto poteva arrivare a 300mila dottori di ricerca e quindi anche il Ministero dell’Economia avrebbe avuto non poche difficoltà.

In questo caso, ad essere straordinaria è la capacità di sparare cifre esagerate: sarebbe bastata una ricerca un minimo accurata su internet, per imbattersi in indagini condotte dall’ISTAT, da Almalaurea e dall’ADI, nonché nei relativi articoli giornalistici di commento, per scoprire che durante gli anni Ottanta sono stati proclamati meno di 2.000 nuovi dottori di ricerca l’anno e pochi di più nel corso dei Novanta; nei primi anni Duemila si è registrato un incremento consistente, arrivando a superare quota 10mila e dal 2010 ad oggi la cifra media è di circa 9.000 nuovi PhD all’anno. Il totale, per quanto non preciso all’unità, si aggira sui circa 191.000 PhD da quando è stato istituito sino ad oggi – meno di 110.000 fino al 2010 e circa 81.000 dal 2010 in poi.

Una cifra alquanto distante da quella paventata e che, oltretutto, si riferisce al totale dei dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo da metà anni Ottanta ad oggi: si spera bene che la stragrande maggioranza di loro abbia nel frattempo trovato una propria giusta collocazione lavorativa e che, quindi, la battaglia che stiamo portando avanti riguardi un numero ben inferiore di colleghi. Oltretutto, il vero discrimine è un altro: l’emendamento presentato chiedeva l’ammissione al concorso straordinario dei dottori di ricerca in possesso anche dei 24 cfu nelle discipline antropologiche-psicologiche-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche (di cui al Decreto Legislativo n. 59/2017): difficile pensare che, su poco meno di 200 mila persone, tutti li avessero conseguiti! La platea reale sarebbe stata ben più ridotta, approssimativamente riconducibile solo a qualche migliaio di dottori di ricerca.

4) I dottori di ricerca non possono essere ammessi al concorso straordinario perché c’è la concreta possibilità che superino nelle prove molti precari con 36 mesi, per i quali è stata pensata la procedura straordinaria, quindi a fine concorso ci si ritroverebbe con lo stesso problema da sanare.

Quest’altra “motivazione” è particolarmente grave: si sta dicendo che è meglio risolvere il problema dei “precari storici”, che vanno immessi in ruolo in virtù del loro precariato giunto al giusto punto di stagionatura (nonché assurto a titolo di merito che surclassa tutti gli altri), piuttosto che “rischiare” di mettere in cattedra persone altamente competenti anche se non abbastanza stagionate quanto a precariato. Meglio cioè evitare di far partecipare i migliori, che sulla carta avrebbero la concreta possibilità di eccellere, perché potrebbero “soffiare” il posto ai mediocri. Evviva la mediocrazia.

Per quanto interdetti e amareggiati dall’ostruzionismo perpetrato dalla compagine di maggioranza di Governo nei confronti dei Dottori di ricerca italiani, la quale lungi dal cogliere l’opportunità di mettere finalmente a disposizione e a beneficio della formazione, della preparazione e della passione per i saperi e per la conoscenza delle studentesse e degli studenti della Scuola italiana i detentori del più alto titolo di studio riconosciuto a livello internazionale (che lo Stato italiano stesso ha contribuito a formare con l’investimento economico dei suoi cittadini) preferisce fregiarsi della loro ingiusta umiliazione, come Gruppo di interesse V.I.Ph.D ribadiamo con fermo e fiero convincimento la legittimità delle nostre istanze di valorizzazione del dottorato di ricerca anche, e soprattutto, alla luce dei principi fondamentali della nostra Costituzione e del dettato costituzionale, fra gli altri, l’articolo 3 in cui si ribadisce che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Che nessuno, di questo Governo, osi più fingere di dolersi per la “fuga dei cervelli”, o millantare l’urgenza della valorizzazione delle eccellenze italiane, o ancora invitare i giovani a studiare e a investire sul proprio futuro: i cervelli vengono costantemente messi in fuga dal nostro sistema, facendo alle loro spalle e tutt’intorno terra bruciata; a chi raggiunge le vette dell’istruzione vengono prospettati “lavoretti” indecorosi e sfruttamento a tempo indeterminato, che trasformano i migliori in precari della vita; e chi più sa più viene umiliato, deriso e superato dalla mediocrazia dilagante. Così, generazione dopo generazione, si uccide il futuro di un Paese.

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Il Direttivo “V.I.Ph.D”

Claudio Brancaleoni

Silvia Crupano

Sergio Martellucci

Serena Modena

viphd@viphd.it