Il TFS, trattamento di fine servizio, è un’indennità che viene riconosciuta al lavoratore dipendente pubblico quando cessa il rapporto di lavoro e spetta solo a chi è stato assunto a tempo indeterminato prima del 2001. Viene calcolato solo sull’ultima retribuzione annua percepita e dà diritto all’80% di un dodicesimo dell’ultima retribuzione annua moltiplicata per gli anni di servizio prestati. Differisce dal TFR (Trattamento di fine rapporto), che oltre a spettare anche ai dipendenti privati assunti dal 2001, viene calcolato sommando le retribuzioni lorde annue (incluse tredicesima e quattordicesima) e dividendo il risultato per 13,5 meno i contributi INPS (0,5%). La somma viene rivalutata con gli indicatori ISTAT anno per anno. La questione è il ritardo nel pagamento del Trattamento di fine servizio, che in certi casi l’INPS versa anche dopo 7 anni.
TFS in ritardo: è legittimo?
Sarà la Corte Costituzionale, il prossimo 9 maggio, a decidere se i ritardi nei pagamenti delle liquidazioni ai dipendenti pubblici, che possono arrivare fino a 7 anni, sono legittimi. L’INPS sostiene di sì, proponendo in alternativa un prestito a tasso agevolato dell’1%, per ottenere un anticipo sul TFS. L’Istituto di Previdenza sottolinea la distinzione tra il Trattamento di fine servizio (Tfs) e il Trattamento di fine rapporto (Tfr) e ritiene che solo il TFR debba essere pagato immediatamente. In questo modo, il risparmio per lo Stato è sicuramente vantaggioso. Per quale motivo?
Lo Stato risparmia, il lavoratore ci perde
A causa dell’inflazione crescente, la liquidazione del Trattamento di fine servizio con 5-7 anni di ritardo, pagata poi senza rivalutazione e senza interessi, equivale ad un taglio del 25-30% dell’assegno. Una tassa che pagano solo i dipendenti pubblici. Ma chi ha presentato il ricorso per l’illegittimità della decisione, sostiene che non ci sia differenza tra TFS e TFR. Viene citata a sostegno una precedente sentenza della Corte Costituzionale (159/2019) in cui la Consulta aveva affermato che il differimento dei pagamenti è giustificato solo per quando si lascia il lavoro in anticipo, e non quando si va in pensione a 67 anni. I giudici avevano chiesto un intervento del Parlamento, che però non c’è stato. Adesso la decisione spetta alla Corte Costituzionale.